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PCU: Pathological Computer Use

È una branca dell’Internet Addiction Disorder, anche se alcuni studiosi la PCU la considerano l’equivalente stesso della IAD. In ogni caso è anch’essa una dipendenza, strettamente associata all’uso complessivo e specifico del computernon necessariamente legata all’essere online.

Si tratta di un disturbo compulsivo-impulsivo che comprende almeno tre sottocategorie: videogaming eccessivo, ossessione cyber-sessuale e text-messaging compulsivo. Capiamone di più.

Come individuare il disturbo?

Nel 2008, lo psichiatra ed esperto del Pathological Computer Use Jerald Block ha attirato l’attenzione dei media dopo aver esposto, in un saggio pubblicato dalla rivista inglese Standopoint Magazine, la pionieristica opinione secondo cui la patologia dovrebbe essere considerata non un semplice disturbo d’ansia, ma piuttosto una condizione mentale distinta a cui dedicare approfondimenti accurati.

Da allora sono stati fatti numerosi passi avanti e nonostante la PCU non sia ancora presente nell’attuale edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) pubblicato nel 2013, verrà molto probabilmente inserita nella prossima edizione (DSM-6) prevista in uscita tra qualche anno.

Al fine di ottenere un’attendibile e comune diagnosi di PCU, sono stati proposti quattro criteri, molto simili a quelli per riconoscere l’Internet Addiction Disorder:

  1. l’utilizzo del computer deve essere eccessivo (tenendo conto del contesto)
  2. devono emergere segni di dipendenza (“tolerance”), cioè il bisogno di trascorrere più tempo al computer per raggiungere lo stesso livello di soddisfazione
  3. l’uso del computer deve causare cambiamenti dell’umore
  4. l’utilizzo del computer deve aver provocato problemi, per esempio nella sfera dei rapporti sociali.

…E come curarlo?

Alla richiesta di nuove possibilità di cura della dipendenza, lo psichiatra sottolinea quanto sia importante mantenere un approccio leggero e delicato: è fondamentale riuscire a parlare della questione, capire se si tratti veramente di un problema “e poi cercare di negoziare una sorta di mutuo accordo sul piano del trattamento”.

Afferma come le difficoltà siano tante in quanto la cura richiede tempo, denaro e non garantisce una completa guarigione dal fenomeno: i terapisti non possiedono ancora abbastanza strumenti per affrontare le nuove situazioni, finendo per focalizzare l’attenzione sulla persona e sui sintomi (depressione, disturbo ossessivo-compulsivo, antisociale o di personalità) senza considerare l’aggravante dell’utilizzo disfunzionale del computer.

Questo succede perché nessuno sembra essere realmente interessato alla questione: da un lato, i governi pretendono studi validi per poter procedere con eventuali operazione di controllo e sicurezza, come da tempo accade nei paesi orientali; dall’altro, i diretti interessati, principalmente l’industria della pornografia e dei videogame, non dimostrano alcuna volontà di investire risorse per la conduzione di studi specifici.

La situazione in Asia

In Oriente, grazie all’investimento di fondi nella sanità pubblica, è stato possibile riconoscere l’utilizzo eccessivo del computer come un problema serio.

In Cina, Vietnam e Corea sono stati segnalati tre casi di omicidio dovuti a problemi riscontrati nel mondo virtuale dei videogame, e certificate le morti naturali di dieci giovani uomini dovute a un problema di coagulazione del sangue causato da un utilizzo del computer anche di 60 ore consecutive.

La Corea del Sud sembra essere quella più in difficoltà: secondo i dati, sempre più ragazzi e adolescenti stanno abbandonando in modo crescente la vita sociale per vivere esclusivamente il mondo virtuale; i ricercatori hanno scoperto che circa il 2,1% dei giovani risultano affetti da PCU e, nella maggioranza dei casi, a un livello difficile da trattare (circa il 20% ha richiesto l’ospedalizzazione).

In Cina, la preoccupazione del governo è tale da aver costretto le case produttrici di videogame a costruire appositi disincentivi che scoraggiano la fruizione del gioco superiore a 3 ore; i ricercatori cinesi hanno stimato che il 13,9% degli adolescenti, per un totale di circa 10 milioni di persone, è affetto dal Pathological Computer Use.

Realtà reale o realtà virtuale?

La conseguenza diretta della grande quantità di tempo trascorsa nella dimensione parallela è che il linguaggio personale cambia: il mondo virtuale e quello reale cominciano a fondersi, e per lo psicologo diventa sempre più difficile riuscire a scindere le esperienze derivanti da entrambi.

A questo proposito, il Dr. Block afferma di aver curato pazienti schizofrenici in cui era stato diagnosticato un così elevato distacco dal mondo reale che la malattia aveva già intaccato il senso di sé in quanto uomini, e l’esistenza appariva loro simile a un sogno in cui pensieri e sensazioni si fondono insieme a persone e oggetti: un paziente per esempio era convinto che gli avessero rubato l’orecchio durante la notte e che ora lo avesse un altro utente. Anche per questo il rischio di omicidi continua ad aumentare.

Il mondo virtuale offre continue occasioni per l’esercizio del potere, dell’uguaglianza e dell’immortalità, terreno molto più comodo rispetto alla dimensione reale in cui non si è in grado di avere rapporti umani; gli impulsi sessuali e aggressivi si esprimono attraverso avatar, giochi e altre attività online.

Riguardo a questo, lo psicologo dichiara che il problema grosso risiede nel fatto che nella dimensione parallela le persone spesso ‘prostituiscono’ i propri avatar partecipando a sesso virtuale per soldi; inoltre, continua il Dr. Block: “Cosa succede se qualcuno ha selezionato solo prostitute virtuali progettate perché avessero le sembianze di bambini?”.

Questo suggerisce un rischio di pedofilia nella vita reale?”, prosegue il dottore, “oppure, la soddisfazione dell’impulso nel mondo virtuale, impedisce l’emergere di deviazioni nel mondo reale? Possiamo teorizzare, ma in realtà non lo sappiamo: non è un esperimento di pensiero, accade e abbiamo bisogno di risposte”.

Un po’ di dati: USA e Cina

Negli Stati Uniti vengono venduti in media 9 videogiochi al secondo; in una nazione di 300 milioni di persone, l’età media dei giocatori è di 35 anni, e circa 200 milioni giocano a videogames per PC e console.

Ma per il futuro, il dramma è nei bambini: l’età di avvicinamento ai giochi si è abbassata fino ad arrivare ai 6/8 anni. Inoltre, già nel 2009 circa il 2% dei giocatori risultava essere un utente “pesante”: 1 giocatore su 3 gioca circa 20 ore alla settimana; sono proprio questi dati ad aver generato il record di 18 miliardi di dollari guadagnati dalla vendita di videogames.

In una conferenza internazionale del 2007, Tao Ran, Direttore del Reparto per il Trattamento delle Dipendenze del principale ospedale militare di Pechino, ha dichiarato che i computer games stanno portando i giovani a “restare svegli tutta la notte e a dormire pigramente durante il giorno”, aggiungendo: “Stanno diventando come gli americani”.

Il direttore era piuttosto contrariato dall’enorme successo che stava avendo un gioco in particolare: World of Warcraft, videogame di portata mondiale con una popolazione virtuale di più di 10 milioni di abbonati mensili. Secondo Ran l’introduzione del gioco in Cina rappresentava, idealmente, una seconda invasione imperialista del Paese da parte degli Stati Uniti.

Il problema sta diventando sempre più ingombrante: molti esperti tendono a scindere questo fondamentale aspetto dei giochi online dalla normale PCU, preferendole invece la definizione più specifica di “Pathological Computer Game Use” (PCGU).

Le due vie per il trattamento:

A causa dell’ignoranza e dei pochi studi in materia, anche terapisti ed esperti del settore trovano difficile approcciarsi alla malattia: sia il riconoscimento sia il trattamento sono complessi da individuare, soprattutto perché i pazienti tendono a minimizzare il reale utilizzo del computer.

La conseguenza è che il terapista incontra enormi ostacoli nel riconoscimento finale del problema, trovando diagnosi apparentemente corrette ma in realtà aggravate dall’uso disfunzionale del computer.

Sono stati tentati due approcci differenti per la cura del disturbo:

  • nel primo vengono imposti limiti fissi per le tempistiche di utilizzo del dispositivo, che viene spento o scollegato del tutto. Se il problema persiste, soprattutto coi bambini, il paziente viene obbligato a trascorrere un periodo di tempo riabilitativo in aperta campagna lontano da ogni distrazione. Anche questo metodo non è senza rischi: in Corea del Sud sono stati costretti a interrompere queste terapie perché, una volta riottenuto l’accesso alla tecnologia dopo una settimana di cura, i bambini si sono dimostrati aggressivi e incontrollabili dal punto di vista comportamentale
  • nel secondo approccio invece, si tenta di svolgere un lavoro con l’individuo al fine di capire in che modo e misura impieghi il computer: comprendendo in prima persona il problema a cui incorre, il paziente può agire in modo più costruttivo circa il suo avvicinamento alla tecnologia.

Probabilmente la cura migliore è intraprendere entrambe le vie.

Tuttavia la scomoda verità è che le attuali strategie di trattamento del disturbo sono inadeguate e spesso fallimentari: fino a che non se ne saprà di più e non si avranno strumenti clinici all’avanguardia, le cure più efficaci risultano essere l’informazione e la prevenzione.

 


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